Fabbricazione dei conî nel Medioevo
Nel Medioevo, i conî venivano preparati in due fasi e da due persone differenti. In primo luogo venivano preparati i cilindri metallici vergini di ferro ad opera di un fabbro solitamente non altamente specializzato. I cilindri o fusti dei futuri conî venivano arroventati e lasciati raffreddare lentamente per stemperarli dall’indurimento della forgiatura e successivamente si levigavano le superfici da lavorare.
Figura 32 – Fonte: royalmintmuseum.org.uk |
In una seconda fase, gli stessi venivano quindi lavorati dagli incisori, detti anche intalliatores, incisores o sculptores cuneorum, che incidevano le impronte della moneta sui due conî.
Gli incisori dei conî rappresentavano una categoria di specialisti molto importanti e spesso si trattava di orefici che non lavoravano in esclusiva per la zecca. Producevano anche sigilli e altre opere per committenti privati. Normalmente, per ovvie motivazioni, erano tenuti ad incidere i conî nella sede della zecca, anche se in qualche caso i conî potevano essere lavorati fuori.
Si ritiene che gli incisori disegnassero le impronte direttamente sui conî con l’ausilio di un bulino o di uno strumento simile. Poi pian piano fu anche introdotto l’utilizzo di una sorta di trapano che serviva ad incidere i puntini dei capelli del sovrano, gli occhi e decorazioni varie. Via via che l’incisione procedeva, si testava il risultato ottenuto premendo sul conio un impasto di cera e nerofumo e, alla fine, il conio veniva ritoccato, lisciato e, se d’acciaio, sottoposto alla tempera[1].
Inoltre, nelle monete medioevali dove era importante avere un contorno regolare, perché ad esempio la legenda veniva posta circolarmente attorno alla figura, veniva spesso adoperato un compasso per tracciare sulla superficie del conio un contorno circolare. Come rileva Grierson, “sulle monete d’oro del quattordicesimo secolo capita spesso di vedere un pallino centrale che segna il punto in cui la punta del compasso produsse una depressione sulla superficie del conio, o anche una levissima linea circolare intorno al tipo e un’altra in prossimità del bordo, che sono le tracce lasciate dall’altra punta del compasso. Le linee tracciate dal compasso potevano essere approfondite con un bulino oppure essere accentuate con un motivo decorativo a perline, che era spesso molto irregolare poiché il punzone munito di due viti che garantivano l’impressione delle perline a intervalli regolari fu inventato solo nel sedicesimo secolo”[2].
In linea di principio, le impronte della moneta erano decise dall’autorità emittente, ma le sue indicazioni – qualora ve ne fossero – erano spesso di carattere generale, e i particolari erano lasciati al senso artistico e all’abilità dell’incisore. Talvolta, i governanti avevano un ruolo attivo nel definire le immagini da riportare sulle loro monete. Ad esempio, il re di Napoli Carlo d’Angiò (1266-85) rifiutò il primo modello del celebre “carlino d’oro” perché le lettere erano poste in modo antiestetico e le due facce della moneta non erano perfettamente allineate.
Una delle caratteristiche principali dei processi di coniazione medioevali è l’utilizzo dei punzoni nella fabbricazione dei conî. L’impiego dei punzoni aveva degli evidenti vantaggi in termini di risparmio di tempo e lavoro, visto che con lo stesso punzone era possibile ottenere più conî, eventualmente anche diversi.
Al riguardo, Panvini Rosati osserva che “in genere si afferma che tale metodo veniva usato per l’inesperienza dell’incisore e per semplificare il lavoro. A me sembra veramente che l’uso di tali punzoni non rendesse più semplice ma complicasse la preparazione dei coni. Il vantaggio era nella possibilità di ottenere con l’impiego degli stessi punzoni variamente assortiti, mutando anche la posizione dei simboli e aggiungendo o togliendo particolari, coni diversi e quindi di poter risparmiare notevole tempo nella preparazione dei conî”[3].
Figura 33 – Fonte D. Cooper (1988) |
Si ritiene che, almeno inizialmente, non venisse usato un solo punzone per preparare il conio, ma tanti piccoli punzoni corrispondenti alle diverse parti del tipo e della legenda che si voleva raffigurare sulla moneta, cioè piccoli punzoni per simboli, elementi ornamentali e lettere. Inoltre, anche le lettere e le figure venivano spesso scomposte nelle loro componenti più elementari e riprodotte per mezzo di due o più punzoncini (cfr. Figura 33). Invece, nel basso Medioevo si cominciarono ad usare dei punzoni sempre più elaborati al fine di imprimere delle lettere intere, degli elementi del disegno di maggiori dimensioni o anche intere figure (es. busto del sovrano). Le varie parti del corpo delle figure, ciascuna su un punzone apposito, venivano battute sul conio e poi abbellite con dettagli incisi a mano. Peraltro, l’utilizzo dei punzoni determinava talvolta l’errato posizionamento di alcuni elementi dell’immagine e spesso il lavoro risultava più trascurato, ma all’epoca ciò aveva un’importanza secondaria.
L’introduzione dei punzoni, non solo accelerò il processo di incisione, ma rese anche meno facile la falsificazione delle monete. Al riguardo, Benvenuto Cellini nel suo Trattato dell’Oreficeria ebbe modo di esaltare la comodità dell’utilizzo dei punzoni nella preparazione dei conî rispetto alla tecnica di incisione completamente manuale degli antichi[4]. Inoltre, si ritiene che un conio punzonato doveva aver avuto una durata maggiore di un conio inciso di epoca romana, poiché il metallo sarebbe stato indurito dalla compressione provocata dalla martellatura.
I conî venivano preparati in gruppi composti da un conio inferiore e da tre o più conî superiori e questo perché i conî superiori dovevano essere sostituiti più frequentemente essendo soggetti ad uno stress maggiore. Per quanto riguarda, invece, la composizione dei conî si ritiene che gli stessi fossero di ferro battuto oppure d’acciaio. A volte solo il corpo del conio era in ferro battuto e l’estremità da incidere era di acciaio che veniva poi forgiata e saldata al corpo[5]. Un modo veloce per determinare la composizione di un conio medioevale consiste nell’analizzare i brandelli di metallo nella zona colpita dal martello. Se i brandelli sono estesi è molto probabile che si tratti di ferro battuto, mentre se i brandelli sono corti ed in parte distaccati è probabile si tratti d’acciaio.
Nel Medioevo, i conî di incudine e di martello presero i nomi di pila e di torsello: il primo era fissato ad un basamento di legno, talvolta contenente una semisfera di pietra ed una camicia in piombo in modo da assorbire i colpi, mentre l’altro disponeva di un manico sufficientemente lungo da permetterne l’impugnatura manuale.
Inoltre, si trattava quasi esclusivamente di conî mobili e quindi nel Medioevo si assistette ad un abbandono dei conî fissi dell’età romana tardoimperiale e bizantina. Ciò essenzialmente per il fatto che le zecche tornarono ad essere delle piccole officine locali, con volumi di emissione abbastanza contenuti e con addetti solitamente poco specializzati. Pertanto, per soddisfare le loro esigenze, erano sufficienti delle attrezzature semplici ed essenziali.
L’utilizzo dei conî fissi ricomincia ad essere documentato solo a partire dal XV° secolo. Al museo di Colonia è conservata una tenaglia di ferro nelle cui branche si inserivano i conî che risale al 1546, vale a dire pochi anni prima dell’introduzione del bilanciere. Tale tenaglia assomiglia molto al conio a tenaglia di molti secoli prima, conservato presso il Fogg Art Museum (cfr. Figura 16) e proveniente probabilmente dalla Grecia o Costantinopoli. Nel lato corrispondente al conio d’incudine, la tenaglia presentava verso l’esterno un puntale da poggiare sul ceppo di legno, mentre il lato del conio di martello era piatto, al fine di assorbire i colpi del martello.
Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la coniazione attraverso conî mobili ha il grande difetto di produrre delle monete con la direzione degli assi irregolare. Tuttavia, anche nel Medioevo si adottò qualche espediente al fine di limitare questo fenomeno ed in particolare furono impiegati:
- i conî incavigliati: si tratta di conî – inventati dagli arabi – in cui un conio aveva delle sporgenze che si andavano ad incastrare con delle cavità contrapposte collocate sull’altro conio. In altre parole, una sorta di meccanismo ad incastro garantiva un orientamento degli assi prestabilito;
- i conî a scatola: un conio era costituito da un parallelepipedo metallico, in due o più angoli del quale sono scavati altrettanti buchi, l’altro conio era costituito da un secondo parallelepipedo, in cui due o più angoli venivano completati ciascuno da una punta sporgente. In tal modo, i due conî potevano essere incastrati fra loro, con un sistema “maschio-femmina”. Come ricorda il Finetti “questi risultavano più solidi dei coni incavigliati anche se potevano dar luogo, se non si prestava la dovuta attenzione, a quattro diversi allineamenti di 90° ciascuno, contro i due di 180° dei precedenti”[6].
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[1] Angelo Finetti, Numismatica e tecnologia, NIS, 1987, pag. 73.
[2] Philip Grierson, Introduzione alla numismatica, Jouvence, 1984, pagg. 154-155.
[3] Francesco Panvini Rosati, La tecnica monetaria altomedioevale, in “Artigianato e tecnica nella società dell’alto Medioevo occidentale”, 2-8 aprile 1970, Tomo II, pag. 728.
[4] “Gli antichi non ebbeno il modo di stampare le monete con quella facilità che noi facciamo, e però mai se n’è viste di quelle che sieno belle” […] “la causa si era che loro le intagliavano con i ferruzzi che adoperano gli orefici, i quali si domandano bulini, ciappolette, cesellini: questa a loro era una difficoltà grandissima” e non quindi utilizzando i punzoni.
[5] “Questa e pila e torsello ambedui si fanno di ferro stietto, salvo che in su le lor teste vi si attacca la grossezza di un dito di finissimo acciaio” dal Trattato dell’Oreficeria di Benvenuto Cellini (1565), pag. 111.
[6] Angelo Finetti, Numismatica e tecnologia, NIS, 1987, pag. 51.