La degradazione della monetazione romana coincide con la caduta dell’impero romano d’occidente, avvenuta nel 476 d.C. a seguito delle invasioni barbariche. A quest’ultima data viene fatto anche risalire convenzionalmente l’inizio del Medioevo, un periodo storico molto lungo che ebbe termine con la scoperta dell’America nel 1492.
Il sistema monetario accentrato dell’impero romano sparì e inizialmente le popolazioni barbariche, invece di avviare delle coniazioni proprie, si appropriarono delle monete romane fino al loro esaurimento, limitandosi a far imprimere su di esse i nomi ed i volti dei loro capi. In seguito, molti dei nuovi sovrani costituirono una o più zecche all’interno del loro regno, cercando di copiare l’esempio della monetazione romana e bizantina.
Figura 28 – Denaro merovingio (ca 670-750) |
Tuttavia, sebbene a seguito delle loro invasioni fossero entrati in possesso della strumentazione romana, le nuove popolazioni barbariche non conoscevano le loro avanzate tecniche di coniazione. Perciò, come tante altre forme dell’arte, durante il Medioevo anche l’incisione monetale subì un graduale declino; le monete risultavano sempre più rozze e approssimative e gli strumenti di coniazione furono ridotti all’essenziale.
Quei pochi cambiamenti che sono stati introdotti nella fabbricazione delle monete non rappresentavano tanto un perfezionamento, bensì un adattamento degli strumenti a nuove esigenze e a nuove forme di moneta. I conî non venivano più preparati con l’esperienza e la cura degli incisori dell’epoca antica e molte delle tecniche di coniazione tornarono ad essere rudimentali.
Peraltro, la fine dei commerci a lunga distanza, lo sviluppo della cultura feudale dove tutto è strettamente dipendente alla volontà del signore del luogo e la diffusione di una nuova religione (il cristianesimo) che disprezzava il denaro e la ricchezza, esiliarono l’uso della moneta solo al pagamento di grandi transazioni. Infatti, nei primi secoli dell’alto Medioevo la gente comune non usava più il denaro, si tornò a preferire il baratto e conseguentemente le monete smisero di essere curate nel loro aspetto. Normalmente, le monete medievali raffiguravano teste e figure di persone o animali stilizzate oppure motivi floreali astratti. Le legende delle prime monete spesso imitavano le iscrizioni dei denari romani e rappresentavano un insieme sconnesso di segni, lettere, monogrammi e abbreviazioni.
Intanto, nell’impero romano d’oriente, Anastasio I° riformò nel 498 il sistema monetario del tardo impero organizzandolo intorno ai nummi di bronzo e al solido d’oro, con i suoi sottomultipli: semisse (mezzo solido) e tremisse (un terzo di solido). Ebbe così inizio la monetazione bizantina.
Nel VI° secolo, con la successiva riforma di Giustiniano, sulle monete di bronzo cominciarono a comparire indicazioni come il millesimo di emissione, l’indicazione della zecca ed altri elementi di garanzia.
Nei secoli successivi, si assistette ad una graduale svalutazione delle monete e le percentuali di metalli preziosi si riducevano continuamente, per cui si arrivò ad utilizzare leghe di oro con contenuto di metallo prezioso fino al 15%, leghe di argento con sempre più alte percentuali di rame e monete di bronzo sempre più ricche di piombo.
Intorno al XII° secolo furono emessi degli scifati o trachy, delle monete a forma di “scodella”, composte sia di elettro che di biglione, una lega d’argento in cui il metallo prezioso è inferiore alla metà del peso totale. L’esatto motivo per cui sono state emesse monete di questa forma non è noto, anche se, secondo alcuni studiosi, ciò consentiva di facilitare l’impilamento. Dopo il 1400, la monetazione bizantina divenne insignificante, in quanto le monete italiane dominavano ormai la massa monetale in circolazione.
Figura 29 – Denaro carolingio (793-812) |
Invece, ad occidente, una prima importante innovazione si ebbe con Carlo Magno, che alla fine del VIII° secolo introdusse un’unica moneta legale – il Denaro – ed il monometallismo argenteo. In altri termini, il Denaro non aveva né multipli né sottomultipli ed era fatto rigorosamente d’argento, in quanto nel sistema previsto dalla monetazione carolingia non esistevano altri metalli. Il nuovo sistema monetario carolingio era basato sulla libbra (circa 327 grammi) di puro argento che doveva esser divisa in venti parti chiamate soldi e ogni soldo era costituito da 12 denari; pertanto una libbra equivaleva a 240 denari. La libbra e il soldo erano multipli ideali, di conto, cioè per fare i conti, ma non esistevano materialmente; come detto, solo il denaro era coniato in varie zecche dell’impero, tra cui quelle di Milano e di Pavia.
Il sistema monetario carolingio rappresentò il primo passo verso una monetazione a carattere europeo e per certi versi costituisce una sorta di antesignano dell’euro.
Il Denaro è stato la moneta più importate del Medioevo e per molti anni mantenne inalterato peso e lega. La gente si abituò presto al nuovo sistema monetario tanto che, col tempo, la libbra, nella parlata comune divenne “lira”.
Durante la dominazione carolingia si ebbe altresì una notevole semplificazione delle impronte riportate sulle monete; non si trattava più di un’imitazione più o meno fedele dei solidi bizantini, bensì di tipologie del tutto nuove in cui un ruolo centrale era rivestito da legende con lettere molto grandi e da monogrammi. Peraltro, la fabbricazione dei conî veniva spesso affidata ad operai poco pratici e questo accentuò ancora di più la tendenza alla semplificazione.
Successivamente, con lo sviluppo dei traffici e dei commerci la monetazione di argento non fu più sufficiente ed il peso delle monete si andava riducendo a causa sia dell’aumento del prezzo dell’argento sia della pratica dei sovrani dell’epoca di lucrare sempre di più sulla differenza tra il valore nominale della moneta ed il valore del metallo di cui era composta. Pertanto, si tornò gradualmente al bimetallismo con la comparsa di diverse monete d’oro, quali ad esempio il fiorino, il genovino, il carlino e lo zecchino.
Intorno al XII° secolo la richiesta di moneta ritornò ad aumentare sensibilmente e le zecche cominciarono ad organizzarsi sulla base di un nuovo modello di tipo proto-industriale, con un’accurata specializzazione e divisione del lavoro, soprattutto in Italia. Infatti, i maestri zecchieri italiani – in particolare toscani e lombardi – furono chiamati in tutta Europa a dirigere le zecche secondo i nuovi metodi.
Al riguardo, va precisato che le zecche medioevali non erano statali, bensì erano vere e proprie attività imprenditoriali che venivano appaltate a maestri di zecca (o massari o magistri o domini monetae), generalmente mercanti o banchieri, secondo specifici contratti e per periodi limitati (da uno a cinque anni), solitamente in seguito al deposito di un’elevata cauzione di denaro. Lo Stato garantiva i locali e le attrezzature, mentre gli zecchieri pensavano al resto.
Infatti, la vasta presenza di toscani e lombardi in questo settore specialmente dalla seconda metà del XIII° fino alla fine del XIV° secolo dipendeva proprio dalla disponibilità dei capitali necessari per ottenere l’appalto iniziale, ma anche dalle capacità di gestione, di contabilità e dalle conoscenze matematiche necessarie per operazioni come quelle di saggio e preparazione delle leghe secondo gli standard decisi dall’autorità emittente, espresse in frazioni complesse[1].
A fianco ai maestri di zecca lavoravano i soprastanti o gastaldi che erano degli ufficiali incaricati di controllare gli interessi dello Stato. Entrambi dovevano provvedere al regolare andamento della zecca, registrando tutte le fasi di lavorazione in appositi registri con l’impiego di scrivani. Peraltro questi registri costituiscono una delle principali fonti storiche per reperire informazioni sulle zecche dell’epoca[2].
Figura 30 – Der Münzmeister di Jost Amman (1568) |
Nella Figura 30 è riportata una xilografia di Jost Amman (1568) intitolata “Der Münzmeister” (il Maestro di Zecca) che è accompagnata da un interessante breve poema tedesco[3].
In questa immagine, si possono ammirare due monetarii, anche detti cuniatores o affioratores o stampatores, intenti a battere delle monete; dalla finestra, probabilmente il maestro di zecca li osserva con attenzione.
Il numero degli addetti impiegati variava molto secondo le attività della zecca. Nel Basso Medioevo – quando, come detto, la zecca tornò a organizzarsi in modo strutturato e la richiesta di moneta tornò ad aumentare – le principali figure professionali che lavoravano al suo interno erano le seguenti: saggiatori, fonditori, tagliatori, fabbri, incisori, stampatori, imbianchitori e operai generici[4]. Sull’organizzazione della Zecca medievale c’è vasta letteratura a cui si rimanda per approfondimenti[5].
Nel Medioevo, la zecca era un edificio poco accessibile, chiuso, controllato e spesso ubicato nel cuore dei centri urbani, presso il palazzo del governo o la piazza del mercato. Ciò comportava degli evidenti inconvenienti: pericolo di incendi, rumori assordanti e fumi sgradevoli oltre che inquinanti.
Al riguardo, nel registro della zecca di Venezia, il Capitolar dalle Broche, è stato scritto: “se ritrova la fabrica della Cecha così mal conditionata che in molte parte minaccia ruina, né potria esser più soggetta né più pericolosa alli incendii per esser traversata de legnami con molte scalle et stantie vecchie che, essendovi più fiate d’acceso il foco, come è noto, non si può dir altro salvo che fin hora la sia stà preservata per sola protettion del signor Dio et convenendosi antiveder con la prudentia di questo Conseglio che più non vi posi intervenir pericolo alcuno con li fochi […] non se die più differir de par principio a ditta fabrica tanto necessaria per la summa importantia delli ditti cavedali, quanto a ciascuno è notissimo, però l’anderà parte che, per auctorità di questo Conseglio, col nome del signor dio et protettor nostro misser san Marco, far se debia la Cecha nostra tutta in volto et a parte a parte, principiando da quella che sarà più necessaria […]”. Da qui il nuovo edificio della zecca veneziana (1547) realizzata da Jacopo Sansovino e che oggi ospita la Biblioteca Marciana.
Peraltro, sempre nel XVI° secolo anche altre città si dotarono di nuovi edifici per ospitare le proprie zecche, come ad esempio il Palazzo del Banco di San Spirito (1524) ad opera di Antonio da Sangallo il Giovane che ospitò la zecca pontificia a Roma oppure il Palazzo della Zecca di Bologna (1578) ad opera di Scipione Dattari.
Nonostante i notevoli inconvenienti che implicava una zecca medioevale, nella documentazione italiana – a differenza di altri Stati europei – non si trova traccia di proteste nei confronti delle attività della zecca al centro della città, probabilmente segno della consapevolezza dell’importanza della zecca a vari livelli, del prestigio che ne veniva, e della necessità di averla presso il centro economico per attirare più agevolmente l’afflusso dei mercanti[6].
Normalmente, le zecche principali erano divise in due impianti operativi separati: quello per le monete d’oro e quello per le monete d’argento e mistura, con diverso personale e diversi magistrati responsabili. Inoltre, tutte le fasi di coniazione delle zecche medievali si basavano ancora su procedimenti quasi interamente manuali: la fusione, la preparazione dei tondelli, la pesatura e poi la battitura.
Figura 31 – Incisione di Hans Burgkmair |
In un’altra famosissima incisione di Hans Burgkmair (cfr. Figura 31) contenuta nel Weisskunig dell’Imperatore Massimiliano (un’autobiografia apocrifa) si possono ammirare, in un’unica immagine, le principali operazioni di una zecca del XV° secolo. La figura centrale è probabilmente un maestro di zecca intento a parlare con l’imperatore Massimiliano. In alto a sinistra, c’è una bilancia che ha un piatto contenente pesi e l’altro monete.
Ancora più a sinistra un forno, dove si vedono tre coppelle. L’operaio in centro è intento a spianare con il martello un lingotto di metallo per ridurlo a lamina, mentre in basso a sinistra un altro operaio (tagliatore) utilizza delle grandi cesoie per tagliare – o forse più probabilmente rifilare – i tondelli della grandezza prestabilita. Infine, in basso a destra c’è uno stampatore che batte i tondelli tra i due conî. Una giovane figura, probabilmente un apprendista, estrae la moneta finita e la sostituisce con un tondello.
E’ interessante notare che questa immagine costituisce la testimonianza che le varie operazioni di coniazione siano di fatto rimaste sostanzialmente immutate per venti secoli!
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[1] Lucia Travaini, Zecche e monete, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, vol. III, Produzione e tecniche, a cura di Ph. Braustein e L. Molà, Fondazione Cassamarca, Treviso, Angelo Colla Editore, pag. 502.
[2] Lucia Travaini, L’arte di batter moneta, in Storia e Dossier, Anno II, 1987, n.6, pagg. 22-25.
[3] “In meiner Münz schlag ich gericht / Gute Münz an kern und gewicht / Gülden / Cron / Taler und Batzen / Mit gutem preg / künstlich zu schazen / Halb Batzen / Creutzer und Weißpfennig / Und gut alt Thurnis / aller mennig / Zu gut / in recht guter Landswerung / Dardurch niemand geschicht gferung” (traduzione: nella mia Zecca io conio correttamente, monete buone del giusto titolo e peso, Fiorini, Corone, Talleri e Batzen con impronte ben evidenti in modo da essere ben accolte. Mezzi Batzen, Creutzer, Weißpfennig e dei buoni vecchi Grossi tutti con un valore intrinseco elevato in modo tale che nessuno ci possa rimettere nell’accettarli).
[4] La divisione del lavoro, con le diverse mansioni specificamente individuate nel lessico, è documentata in Italia dagli inizi del XIII° secolo, caso unico in Europa. Peraltro, la dettagliata specificazione terminologica per tutte le fasi produttive testimonia lo sviluppo italiano in questa attività.
[5] Cfr. Lucia Travaini, Monete e storia nell’Italia medievale, IPZS, 2007.
[6] Lucia Travaini, Zecche e monete, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, vol. III, Produzione e tecniche, a cura di Ph. Braustein e L. Molà, Fondazione Cassamarca, Treviso, Angelo Colla Editore, pag. 488.